martedì 13 settembre 2016

Serious Black - Mirrorworld (2016)




Tracklist:
1. Breaking The Surface
2. As Long As I'm Alive
3. Castor Skies
4. Heartbroken Soul
5. Dying Hearts
6. You're Not Alone
7. Mirrorworld
8. State Of My Despair
9. The Unborn Never Die

Avete presente quella donna bellissima con cui siete andati a letto (non ce l'ho presente nemmeno io, ma fate lavorare l'immaginazione) e che il giorno dopo, struccata, con il pigiamone di flanella, mentre si incammina scoreggiando verso il bagno, vi si rivela nel suo vero aspetto? Bene, questi sono i Serious Black.

Nati come una all-star band, spinta all'inverosimile come una creatura nata da un'idea del tipo che si è mangiato Roland Grapow, e del bassista dei Vision of Atlantis, che mi sembra comunque eccessivo chiamare "star". A loro si sono aggiunti altri tizi provenienti come turnisti o membri stabili da gruppi più o meno affermati , ma comunque fuori dal giro di quelli che contano veramente. La vera chicca, che ha permesso alla label di creare un hype spaventoso su questo collettivo, è stato il nome di Thomas Stauch, indimenticato ex batterista dei Bind Guardian che tutti, più o meno segretamente, speriamo un giorno di rivedere sul palco con i bardi di Krefeld. Tutti questi nomi altisonanti (a guardare bene, Grapow e Stauch) hanno permesso alla band di godere di un certo seguito già prima di pubblicare l'album di debutto, e di imbarcarsi successivamente in un tour come spalla ad Hammerfall e Orden Ogan.

La storia ufficiale vuole Grapow e questo Mario Lochert che mentre si fanno una chiacchierata alcoolica, decidono di tirare su un gruppo insieme, e per farlo scelgono a casaccio, tipo album di figurine, uno Svedese-Americano (Urban breed, ex cantante dei Tad Morose, su cui torneremo tra poco), un greco, un Giordano, un altro tedesco, un austriaco, un Ceco. Pare che un giorno tutti questi si siano visti in studio e nel giro di pochi giorni abbiano tirato fuori i pezzi che sarebbero poi finiti sull'album "As Daylight Break". Registrano un video in cui Thomen compare come una sorta di novello Steven Seagal, che per fare il fico in canotta è morto di freddo e sta ancora mezzo bloccato con la schiena da due anni, e che lo porta a prendere la decisione di abbandonare la band insieme a Roland Grapow che improvvisamente si rende conto di non riuscire a conciliare gli altri suoi impegni, tipo i Masterplan. I due vengono prontamente rimpiazzati da due session random (se non sbaglio il Giordano e il Greco di cui sopra) e la band va avanti come se niente fosse fino alla fine del tour. Per il nuovo disco il Giordano viene scaricato e rispedito al mittente (la sua band principale, i Freedom Call) e viene ingaggiato il numero 2 per eccellenza dopo Ripper Owens: Alex Holzwarth. Anche lui pare abbia registrato la batteria in veste di ospite e, immagino, verrà ringraziato e sostituito prontamente da qualche batterista dalla provenienza esotica.

Per quanto mi riguarda, le cose sono andate diversamente. Penso che Grapow si sia limitato a firmare la liberatoria per poter utilizzare il suo nome nei credits dell'album, e a comparire nel video che tanto è stato fatale al nostro Thomas Stauch, che forse invece ha perfino registrato le sue parti di batteria. Ho i miei dubbi sul fatto che tutti i sei membri del gruppo si siano incontrati prima di partire per il tour (le foto promozionali con i 6 membri incollati uno vicino all'altro, per il primo e per il secondo album sembrano avvalorare la mia ipotesi), e ho il sospetto che, dopo aver ricevuto i file di guitarPro, ognuno abbia registrato la sua parte spedendola per il mix finale.

Nelle interviste si parlava con entusiasmo di come ognuno fosse riuscito a coronare il suo sogno di formare un nuovo gruppo power che suona come altre centinaia di gruppi power, di come il nome Serious Black non sia stato assolutamente scelto per la somiglianza con il personaggio di Harry Potter (a casa mia si chiama "esca per i gonzi"), di come tutti si sarebbero impegnati al massimo per portare il nome del gruppo ai vertici del metal mondiale, salvo andarsene due giorni dopo. Insomma, tante belle parole, tanta bella pubblicità, e pochissima sostanza.

A dire il vero, anche il fatto che il cantante sostenga che il suo vero nome sia Urban breed (con la minuscola) non depone così a favore della loro onestà intellettuale.

Insomma, una volta accantonato il discorso pubblicità ingannevole, se parliamo solo di musica possiamo dire che i Serious Black avrebbero potuto cavarsela anche senza scomodare nomi altisonanti. Power metal molto radiofonico, con i ritornelloni che parlano di amore, l'elegante  voce di Urban breed che tesse delle belle trame vocali su una base composta di pochi riff e di tanti accordoni. Immaginate una versione molto più gay degli Unisonic senza Michael Kiske.

Il disco è composto di 8 tracce più un'intro. Della durata media di 4 minuti scarsi: 36 minuti in totale. Diciamo che come standard è abbastanza risicato: nell'album precedenti i pezzi effettivi erano 10 e la durata totale di circa 45 minuti, ma il discorso è sempre lo stesso. Il sapore di una corsa disperata per far uscire in tempo utile un secondo album costituisce l'ennesimo punto a sfavore di una band che, a mio avviso, complice una label sconsiderata e i suoi consigli fuori luogo, si è sputtanata da sola senza averne bisogno. 

Magari avrebbero impiegato 2-3 album per farsi un nome, e avrebbero dovuto sudare di più per andare in tour con certi gruppi, ma non avrebbero fatto la figura dei coglioni. Ed avrebbero potuto raccogliere il meritato (e moderato) successo. Sono convinto che al terzo album si scioglieranno e che tra 4-5 anni non si ricorderanno più nemmeno loro della parentesi Serious Black. Ma per ora qualche ascolto in scioltezza gli si concede volentieri. Il disco passa in fretta e non lascia assolutamente nulla, ma in quei 36 minuti devo ammettere che risulta tutto sommato piacevole, oltre che molto poco impegnativo.

venerdì 17 giugno 2016

Iron Savior - Titancraft (2016)


Tracklist:
1. Under Siege
2. Titancraft
3. Way Of The Blade
4. Seize The Day
5. Gunsmoke
6. Beyond The Horizon
7. The Sun Won't Rise In Hell
8. Strike Down The Tiranny
9. Brother In Arms
10. I Surrender
11. Rebellious

Piet Sielck mi è sempre stato parecchio simpatico. È un po' l'eterno secondo della storia dell'heavy metal. Tanto per dire, è colui che insieme a Kai Hansen ha inventato il power metal. Insomma, non proprio l'ultimo degli stronzi. Sfortuna vuole che abbia abbandonato gli Helloween quando ancora si chiamavano Second Hell e suonavano nei locali della Germania Ovest per una cassa di birra e una ravanata di mutande da parte della bionda ubriaca di turno. Poi entrò Weikath, e il resto è storia. Nel frattempo il nostro Piet ha intrapreso una vita come produttore e ha fondamentalmente tirato i fili dell'intera scena power tedesca, tanto per citare alcuni gruppi che hanno goduto della sua produzione: Blind Guardian, Gamma Ray, Stormwarrior, Paragon, Persuader, Grave Digger e Headhunter.
Poi ad un certo punto ha deciso di riprendere in mano la chitarra e ha fondato gli Iron Savior, mettendo su una sorta di supergruppo che all'inizio contava tra le proprie fila il vecchio amico e compagno Kai Hansen e quella mitragliatrice umana che risponde al nome Thomas Stauch, fabbro al servizio dei Blind Guardian che ha effettivamente bisogno di poche presentazioni. Con la formazione leggermente rimaneggiata negli anni (Dan Zimmerman, che ha sostituito Stauch per un paio di anni, prima di lasciare definitivamente il posto a un altro veterano della scena di Amburgo, Thomas Nack, già ascoltato con i Gamma Ray nei primi anni 90, e il perfetto sconosciuto Joachim Küstner, probabilmente il coinquilino e collega di Sielck, al posto di Kai Hansen, andatosene dopo i primi due album) gli Iron Savior sono andati avanti pubblicando dischi su dischi e mantenedosi su livelli qualitativi più che buoni, senza mai sfornare capolavori immortali, e senza mai far gridare allo scandalo.
La formula è sostanzialmente quella del tipico power metal di Amburgo, con pochissime variazioni sul tema. I richiami ai Gamma Ray sono forti, nonostante una pesantezza di base leggermente maggiore rispetto al gruppo dell'uomo con la volpe in testa (ma davvero pensavate che quelli fossero i suoi capelli?) e linee vocali allo stesso melodiche e aggressive, giocate soprattutto sui registri medio-bassi: tanto per dare un'idea, qualcosina in meno rispetto a Peavy Wagner, per la sua abitudine di essere sempre un eterno secondo.
La volpe sulla testa di Kai Hansen mentre concede un'intervista a Blabbermouth

C'è da dire che a Piet Sielck non sembra pesare tutta questa situazione: sarebbe potuto diventare rich and famous con gli Helloween, ma anche con i Gamma Ray, e invece si diverte con il suo gruppo a suonare in locali da 300 persone, girando video per i quali la Napalm elargisce un budget che sfiora le 15 mila lire e registra i dischi che gli pare, quando gli pare, producendoli e potendosi esprimere nel migliore dei modi senza dover chiedere consigli a nessuno. Questa sua ottica alla do it yourself ne ha un po' cristallizzato lo stile in una formula che richiama certe sonorità dei migliori Accept, e le miscela, appunto, con i canoni tipici dell'Hamburg power metal. Nei suoi dischi si sentono echi di tutti i gruppi già citati, per i semplice fatto di essere la mente, o almeno una delle due menti dietro a quel sound estremamente riconoscibile e coinvolgente.
Al termine dell'articolo vi posto il video in cui si cimenta nell'imitazione (riuscitissima) di Marco Berry quando conduceva il gioco a premi dentro a un taxi e, oltre a farvi una risata, soprattutto per la tristezza di un video girato con quattro soldi e un cellulare (e a macchina ferma con la cintura di sicurezza sennò arriva direttamente la Polizei con la squadra Cobra11), spero vi rendiate conto della genuinità di questa gente. Gente che, nonostante faccia video ridicoli, se ne sbatte altamente le palle e pensa solamente a divertirsi e a registrare una musica sanguigna e sincera, che ci fa scapocciare tutti contenti e ci fa dimenticare per quei 50 minuti il fatto che, sì, Piet Sielck sarà un eterno secondo, ma che effettivamente è sempre in una posizione migliore della nostra, a pecora, a cui ci siamo ormai abituati.

Vi chiederete a questo punto come sia questo nuovo “Titancraft”. Io vi dico che non aggiunge né toglie niente a quello che è stato già detto con i dischi precedenti. Probabilmente contiene cori meno memorabili rispetto ai precedenti “Rise Of The Hero” o “The Landing”, ma è comunque pieno zeppo di brani per cui impazzire dal vivo, marchiati a fuoco col sigillo della città di provenienza del gruppo. Ascoltarlo non è sicuramente una perdita di tempo, e ve lo consiglio caldamente, insieme all'esortazione a scavare nella loro intera discografia.
Si, ok, c'è la scena di Gothenburg e di Stoccolma, quella di Bergen, quella di Tampa e della Bay Area. Ma altro che Sparta, QUESTA È AMBURGO!!!!!



martedì 14 giugno 2016

Vektor - Terminal Redux (2016)


 Tracklist:
1. Charging The Void
2. Cygnus Terminal
3. LCD (Liquid Crystal Disease)
4. Mountains Above The Sun
5. Ultimate Artificer
6. Pteropticon 
7. Psycotropia
8. Pillars Of Sand
9. Collapse
10. Recharging The Void


A parte alcuni act che ormai riempiono le arene, ma che sono già partiti con un certo obiettivo specifico, e cioè di conquistare il più possibile il cosiddetto pubblico mainstream (tipo i Volbeat, per dirne uno), tra le band underground una parabola ascendente al livello di quella dei Vektor è un caso più unico che raro. Già dopo l'uscita di "Black Future", nel 2009, c'era chi (giustamente) affermava che i Vektor fossero l'unico gruppo thrash in grado di giocarsela alla pari con le grandi band del passato. Così come dopo la prima data europea all'Hellfest 2013 è partita la gara ad incensarli il più possibile. 

C'è da dire però che i Vektor, tutto questo incenso se lo meritano eccome: un debut del calibro di Black Future, nella mia modesta opinione, non si era mai visto negli ultimi 10-15 anni . Hanno poco da dire i detrattori che li considerano come una cover band dei Voivod, dai quali mi sembra abbiano semplicemente preso le tematiche sci-fi e una certa propensione alla dissonanza e agli accordi spaziali, nella stessa misura in cui ne prendono le distanze con un songwriting più prettamente estremo e meno diretto.

Sicuramente non sono ragazzi che prendono alla leggera il proprio lavoro, visto che il tempo medio di scrittura e registrazione di ogni uscita targata Vektor è di circa 4 anni. Non c'è quindi da stupirsi se in 12 anni la band non sia stata particolarmente prolifica, soprattutto considerando l'elevatissimo livello qualitativo di ogni uscita. Solamente con "Outer Isolation" hanno rischiato di fare un mezzo passo falso, evidentemente forzati a spingere sull'acceleratore dalla label per non finire nell'oblio e cavalcare il consenso internazionale ricevuto con la pubblicazione di "Black Futur" che effettivamente aveva già messo in mostra le marce in più che possedeva la band rispetto alla concorrenza.. Il risultato è stato un disco degno del nome che portava in copertina, ma con una forte sensazione di incompiutezza, soprattutto squadrando la tracklist, e rendendosi conto che su 8 pezzi, ben 3 sono ri-registrazioni di brani contenuti nel demo "Demo-Lition" di qualche anno prima, tra cui "Tetrastructural Mind", una bomba assoluta sia su disco che dal vivo. Io lo considero più una sorta di EP di lusso, anche perchè la qualità della musica è ovviamente altissima. Ma stiamo seplicemente facendo esercizi di classificazione.

Il vero botto capace di spararli dritti Into The Legend insieme a Fabio Lione-Carrisi, è arrivato con quest'ultimo "Terminal Redux", opera magniloquente e pomposa, con la nuova etichetta della band, la Earache, impegnata per mesi e mesi ad aumentare l'hype con mille edizioni tra vinili, cd e pacchetti vari con le magliette più disparate. Hype che non è stato per niente deluso, anzi: 4 anni abbondanti di gestazione,  73 minuti di musica, un concept fantascientico intricatissimo e una delle migliori copertine viste da parecchi anni a questa parte sono semplicemente le premesse per un disco che è assolutamente cosa buona e giusta definire "capolavoro". I 4 musicisti sono in completo stato di grazia, e se il frontman David DiSanto ha firmato buona parte della musica contenuta su queste dieci tracce, e tutta la parte relativa a concept e test, i suoi compari hanno fatto di tutto per valorizzare al meglio delle composizioni già pregevoli di loro. Il drumming scarno e forsennato di Blake Anderson, il basso onnipresente di Frank Chin, in questo lavoro molto più protagonita che gregario, le dita magiche di Erik Nelson, che insieme a DiSanto forma una delle migliori coppie di asce dell'intera scena, tutto è perfettamente incastrato in canzoni intricate, tecnicissime ed aggressive. 73 minuti di puro godimento, con buone dosi di psichedelia ben mascherata tra le varie partiture più veloci e dirette. 73 miunti che passano in un attimo, come se si venisse lanciati in un buco nero, per poi tornare sulla terra giusto il tempo di premere nuovamente il tasto "play" e ricominciare il viaggio. Poche ma efficaci sono state le modifiche apportate al suono ormai tipico dei Vektor, come le due voci femminili ad accompagnare le armonie delle chitarre in apertura e chiusura del disco, e come gli arpeggi acustici e il cantato in clean di "Collapse", esperimento secondo me ben riuscito nonostante gli evidenti limiti tecnici del cantato pulito di DiSanto, che ha intelligentemente optato per una prestazione non sopra le righe, in favore di una atmosfera crepuscolare al massimo. Ho apprezzato molto anche l'idea delle due voci, che tanto ha fatto parlare i sedicenti critici, e che hanno paragonato i vari arpeggi a "Fade To Black", con cui sinceramente non ho trovato alcuna somiglianza. Ma proprio nessuna.

Non voglio nè fare un track by track nè allungare troppo questa recensione, ben sapendo di essere il mio unico lettore, e di conoscere già cosa sto per scrivere. Dico solo che pezzi come "Ultimate Artificer", "LCD" e "Psycotropia" sono delle mazzate allucinanti da ascoltare senza indugio, molto meglio di alcune droghe che tanti dicono vadano provate almeno una volta nella vita, e che la parte finale di "Rechargin The Void", con le voci femminili che si stagliano sopra una base in blast beat ed ai latrati lancinanti di DiSanto, mi ha al tempo stesso gasato e spaventato per la sua aggressività ed efficacia. 

Ormai i Vektor trascendono le classificazioni, e faccio sinceramente fatica a definirli thrash, o death, o progressive, o chissà cosa. 

Nel frattempo sono nate band su band con loghi sovrapponibili e monicker con la V per non dover moficare il fonte che ha solo quella come maiuscola, che con la scusa di ispirarsi ai Voivod (che, ricordo, per anni e anni sono stati relegati al ruolo di band di culto ma che nessuno ascoltava) e di conseguenza ai Vektor, hanno cercato di cavalcare l'onda provocata da questi ultimi. E devo dire che ce ne sono anche di validi, tipo i toscani Vexovoid, che mi sentirei anche di consigliarvi. I Vektor però, nel frattempo, con "Terminal Redux", hanno tirato fuori il cazzo, l'hanno messo sul tavolo e hanno fatto tacere tutta la concorrenza dimostrando le proprie dimensioni nettamente superiori. Con buona pace di quelli che erano saliti sul carro dei vincitori e che ora si trovano davanti agli occhi delle enormi cime da scalare per poter raggiungere i maestri.

Ecco, tralasciando qualsiasi tipo di ritegno, mi sento di affermare che i Vektor potrebbero tranquillamente permettersi di calcare i palchi di qualsiasi grande festival IN VESTE DI HEADLINER, e annichilire gruppi ben più blasonati, famosi e pagati, che non cederebbero per niente al mondo il proprio slot sul main stage.

Anche se, egoisticamente, preferirei restino nell'undergound, con la fama di semidei che si meritano, chiusi nelle loro stanzette tra gatti, cani e mogli tatuate rompicoglioni, a scrivere nuovi pezzi, senza eccessivi sogni di gloria che hanno rovinato negli anni anche il musicista più equilibrato.

Adesso non ci resta che aspettare il 2020, massacrandoci nel frattempo con il miglior disco uscito negli ultimi 15 anni almeno.


martedì 3 maggio 2016

Almanac - Tsar (2016)


Tracklist:
1. Tsar
2. Self-Blinded Eyes
3. Darkness
4. Hands Are Tied
5. Children Of the Future
6. No More Shadows
7. Nevermore
8. Reign Of Madness
9. Flames Of Fate

Ammetto che ho sempre avuto stima per Victor Smolski. Anche solo per il fatto di essere probabilmente l'unico Bielorusso a non aver scelto una carriera nel porno.
Quando lo vidi per la prima volta dal vivo, anni fa, ad un Wacken qualsiasi, in cui si esibivano i Rage con la Lingua Mortis Orchestra per la solita retrospettiva orchestrale, mi colpirono particolarmente la sua raffinatezza negli assoli, un suono settato perfettamente, ma soprattutto i suoi stivali a punta lunghi un metro e mezzo.
Compositore eclettico, chitarrista solido ma mai scontato, mi ricordo di essere rimasto positivamente stupito quando ascoltai per la prima volta "Unity" dei Rage, in cui il sound tipico del gruppo non veniva affatto sacrificato, ma i riff di chitarra acquistavano in continuazione colori diversi, spaziando dal power tradizionale, al thrash, ad una sorta di funky metallico, senza tralasciare arpeggi e passaggi in fingerstyle un po' alla John 5.
Ai tempi dei Rage, Victor si era accollato, oltre al peso della composizione in tandem con il nostro adorato pelatone grassone, quello degli arrangiamenti orchestrali e di altri numerosi aspetti che, immagino, saranno passati per la produzione, la registrazione, il merchandising e l'accudimento del papà obeso di Peavy Wagner. E purtroppo, si sa, quando un musicista deve occuparsi di un gruppo a trecentosessanta gradi, rischia sia di risultare un rompicoglioni galattico (pare che Terrana, per quanto non abbia mai commentato apertamente lo split con i Rage, dica in continuazione che c'era "qualcuno" che pensava di dirgli come e cosa suonare, scatenando in lui un odio viscerale verso i chitarristi. Odio che si porta ancora appresso e che non manca di rimarcare in occasione di ogni intervista, condita da chili di sano umorismo, che quindi ci fa adorare sempre più il simpatico drummer dalla cresta calva, colui che da solo può tenere in piedi lo show di qualsiasi band gli chieda aiuto dietro alle pelli), sia finire inevitabilmente a scontrarsi con gli altri membri sulla direzione che una band debba prendere. Nel caso dei Rage trovo più che giusto che Peavy, minacciato nella sua figura di leader, abbia scelto, ovviamente, di restare senza concorrenza e di prendersi due ragazzetti che, sono sicuro, ci regaleranno l'ennesima mazzatona, anticipata dalla gobidile "My Way" di qualche mese fa. Quindi, uno dichiara di voler tornare alle origini mantenendo in piedi le 3 formazioni di casa Rage: Refuge (i Rage quelli dei primi album con Manni Schmidt), la Lingua Mortis Orchestra e gli stessi Rage, auspicando un ritorno a sonorità più thrash ("ora che il cacacazzi direttore d'orchestra se n'è andato"); e l'altro può finalmente fondare un gruppo a suo nome, prendendosi carico e curando tutti gli aspetti della pubblicazione di un disco, potendo contare sull'appoggio fiducioso di mamma Nuclear Blast che gli regala non uno ma 3 cantanti, di cui parleremo in seguito, un pugno di musicisti giovani e semisconosciuti ma affatto inesperti e un bel po' di tempo in compagnia di non so quale orchestra con cui potersi divertire a scrivere gli arrangiamenti.
Insomma, quando Smolski se ne uscì dicendo di voler dare alle stampe il debutto dei suoi nuovi Almanac, che sarebbe stato un concept sulla vita di Ivan il Terribile, primo Zar di Russia, e che sarebbe stata una sorta di proseguimento ideale del percorso intrapreso con la LIngua Mortis Orchestra, ho avuto l'intenzione di ignorarne bellamente l'ascolto. Fino a quando non è stato annunciato che i cantanti coinvolti in studio e dal vivo sarebbero stati David Readman, in forza nei Pink Cream 69 che conosco solo escono fuori nei discorsi ogni volta che si parla di Andi Deris, ma che sono sicuro siano un gruppo estremamente valido, dato che membri ed ex membri hanno colonizzato ormai qualsiasi formazione power tedesca degli ultimi 25 anni; le due cantanti della Lingua Mortis Orchestra, delle quali è rimasta solo la sempre sorridente Jeannette Marchewka, che si fa le foto con Gianni Fantoni mentre sfoggia una console per guitar-hero modificata, e il sommo Andy B Franck, singer degli immensi Brainstorm, che se ne sono usciti pochi mesi fa con un discone pesantissimo pieno di acciaio tedesco di prima qualità, e che spero di potervi raccontarvi in futuro. E insomma, per Andy hofatto un'eccezione e ho dato un assaggio al disco.
Ed è una bomba.

Parliamo di un mix di heavy-power influenzato dal thrash, venato delle pennellate barocche-neoclassiche dipinte dalla chitarra di Smolski. Il tutto legato amabilmente ad orchestrazioni mai troppo impegnative o fini a se stesse nè sovrastanti la base fornita dal nucleo della band. Produzione egregia e molto poco plasticosa per gli standard Nuclear Blast, che non arretra mai di un centimetro, rifiutandosi di sacrificare alcun briciolo di potenza in favore degli arrangiamenti orchestrali. Inutile una descrizioni prolissa dei brani: vi basti sapere che per tutto il disco Victor macina riff su riff decorandoli con i suoi fill fuori dal mondo senza mai darci l'impressione che il tutto sia un semplice divertissement con cui mettersi in mostra ma anzi, mettendosi completamente al servizio della musica. Il tutto mentre la band svolge egregiamente il proprio lavoro di supporto alla sei corde e alle tre ugole che si alternano in continuazione, con l'unico errore, se posso permettermi, di aver lasciato un po' in disparte la donzella, relegandola più che altro al ruolo di corista di lusso, nonchè esca per metallarini nelle future date dal vivo. Menzione speciale per gli assoli che risuonano nitidi, pieni, particolarissimi e coinvolgenti, mai prevedibili ma anzi continuamente cangianti, e che mettono in luce il gusto fenomenale del Bielorusso in fase sia compositiva che esecutiva.
Che altro dire? Il valore del disco cresce con gli ascolti, i cori vi si stamperanno in testa abastanza presto e l'omogeneità dell'intero disco lo farà scorrere via come acqua fresca, mandandovelo in loop senza nemmeno accorgervene.
Con questo album, Victor Smolski ha finalmente affermato il suo altissimo valore di musicista e di compositore, anche svincolato dal potente morso del Soundchaser. E finalmente, dico io, viste le ultime uscite in casa Rage, sempre pregevoli ma un po' colpevoli di andare col pilota automatico.
Ora aspettiamo la controffensiva di Peavy Wagner, che non tarderà ad arrivare.
Sparatelo dale casse a volume inumano, e nel frattempo, Caviale, Champagne e troie per tutti!

Victor pronto per andare al concerto di ДL ЬДЙФ З ЯФMIЙД: la classe, l'eleganza e la raffinatezza prima di tutto

giovedì 14 aprile 2016

Savatage - The Wake Of Magellan (1997)

Tracklist:
1. The Ocean
2. Welcome
3. Turns To Me
4. Morning Sun
5. Another Way
6. Blackjack Guillotine
7. Paragons Of Innocence
8. Complaints In The System (Veronica Guerin)
9. Underture
10. The Wake Of Magellan
11. Anymore
12. The Storm
13. The Hourglass

Lungi da me effettuare una panoramica dettagliata sulla discografia di uno dei gruppi più straordinari della storia della musica, mi limiterò a parlare di questo "The Wake Of Magellan" descrivendo come sia stato possibile coniugare in maniera armonica e naturalissima fatti di cronaca, musica e poesia.

Questo album rappresenta probabilmente l'apice dell'era O'Neil, successiva alla morte del compianto Criss Oliva. Jon Oliva e Paul O'Neil, forti anche della recente collaborazione per l'esordio della Trans-Siberian Orchestra nel 1996, danno vita ancora una volta ad una serie di canzoni intimamente collegate tra loro, pescando a piene mani dalla tradizione più orchestrale della band, coniugando un riffing colto e ricercato, l'amore per il musical già abbondantemente sfoggiato in "Gutter Ballet" e le stratificazioni vocali iniziate su "Handful Of Rain" e riprese successivamente su "Dead Winter Dead", dal quale viene ripresa anche l'idea del concept album e dell'ispirazione a fatti di cronaca, in questo caso la morte della giornalista Veronica Guerin e il caso dell'annegamento di 3 clandestini sulla Maersk Dubai, il tutto inserito in una sorta di percorso spirituale legato intimamente all'Oceano.

Se proprio dovessi trovare un difetto a quest'album, che inserisco senza indugio tra i miei 10 album preferiti di sempre, parlarei della parziale (e volontaria) messa in ombra di Jon Oliva, qui impegnato solo alle tastiere e alla voce su un paio di pezzi, oltre che, ovviamente, alla composizione che pure risulta evidentemente trascinata da O'Neil e dal collettivo TSO, che ricordiamo  riempie i teatri di tutti gli Stati Uniti e garantisce un introito di una milionata di dollari al giorno nei periodi di tour. Insomma, gente che sa fare il proprio mestiere, e lo sa fare bene.

L'intera ora di durata del disco sembra scorrere tra le dita come acqua marina, e le tredici composizioni non riescono a saziare le orecchie e si è sempre portati a ricominciare l'ascolto che, per essere effettuato al meglio, come tutte le opere rock o per i concept album, dovrebbe avvenire tutto di un fiato, senza pause.

Il mare è l'elemento portante dell'intero disco, a partire dal concept, passando per la splendida copertina firmata da Edgar Jerins (che fu poi quella che mi spinse a comprare il disco a scatola chiusa quando venne eletta nella poll di fine anno di Metal Hammer come miglior copertina del 1997), al suono della risacca che ci accoglie dopo la pressione del tasto play. Da queste acque sorge un pianoforte malinconico che fa da tappeto all'ingresso in fading dell'intera band in un riff coperto dalla foschia, confluendo poi in una composizione ("Welcome") che potrebbe essere stata tranquillamente scritta da Andrew Lloyd Webber. E proseguendo nell'ascolto verremo travolti da altissime onde, verremo intrappolati in enormi gorghi e andremo incontro a pericolosi temporali, salvo poi ritrovarci circondati da un mare liscio come l'olio, una volta che queste saranno sparite e avranno lasciato il posto ad un nuovo sole splendente.

Musicalmente, ogni singola nota è perfettamente incastonata in un gioiello costruito con perizia da musicisti rodati e senza manie di protagonismo: la forza dei Savatage, infatti, è sempre stata quella di essere estremamente uniti sia a livello professionale che personale, e di vivere completamente al servizio della musica e del gruppo stesso. Ogni membro risulta quindi essenziale per porre quest'album ad un livello così elevato, sia pur evitando volutamente qualsiasi momento di autocelebrazione: la voce di Zack Stevens è evocativa come poche altre e lo conferma immediatamente come uno dei cantanti più dotati dell'intera scena; Jeff Plate e Johnny Lee Middleton costituiscono una sezione ritmica solidissima e precisa rimanendo sempre in secondo piano, e i due chitarristi Al Pitrelli e Chris Caffery sciorinano riff e assoli uno dopo l'altro come versi di una poesia. Al timone c'è sempre un Jon Oliva un po' distante, coadiuvato dal terzo socio della TSO, Robert Kinkel, che con le loro tastiere vanno a migliorare un arazzo già preziosissimo di suo con sfumature d'oro e d'argento.

Non è questa la sede in cui effettuare un confronto tra questo disco e le gemme partorite insieme a Criss Oliva, in quanto a mio avviso, stiamo parlando di due gruppi completamente differenti, che condividono semplicemente dei membri. Se si chiedesse a 10 fan dei Savatage quale sia il loro album preferito, probabilmente si avrebbero 10 risposte diverse, così come sono estremamente diversi i commenti a questo "The Wake Of Magellan": alcuni lo ritengono troppo debole rispetto alle altre release sotto lo stesso monicker, mentre altri, tra cui il sottoscritto, lo reputano il vero capolavoro post-Streets. L'unico aspetto che non cambia è l'amore che i fan continuano ancora oggi a dimostrare ad una band che, suo malgrado, non ha mai raccolto ciò che realmente meritava, e che ha però saputo accontentarsi, rimanendo di una purezza sconcertante, spinta solamente dall'amore per la musica e limitandosi ad un sorriso sornione come quello di Jon Oliva, una persona splendida, dotata di un cuore enorme e che spero un giorno di poter in qualche modo incontrare, anche solo per ringraziarlo per tutte le emozioni che mi ha regalato con "When The Crowds Are Gone", probabilmente la canzone che mi tocca più nel profondo.

Ancora una volta, grazie Savatage.

martedì 12 aprile 2016

Death DTA Tour: Eric Greif is the new Sharon Osbourne

In principio erano i Savatage. 
Dopo la morte di Criss Oliva, i tre restanti musicisti tennero un concerto in onore del fratello scomparso: batteria, basso, tastiere e voce. Al centro del palco faceva bella mostra di sè la ormai leggendaria chitarra vista sulla copertina di "Gutter Ballet", e in numerose altre rivisitazioni. Quando era in vita era la musica a parlare per lui. Da morto era la sua assenza a risuonare nel profondo di ogni fan accorso a salutarlo per l'ultima volta. Dai pochi video che si trovano su youtube è impressionante rendersi conto di come il suo suono inconfondibile sia presente quasi con arroganza su una "Believe" qualsiasi, nonostante l'inedita veste del pezzo.
 

Ora parliamo dei Death, di Chuck Schuldiner, e di quel maledetto cancro che ce lo portò via il 13 Dicembre del 2001, privando il mondo intero di uno dei migliori compositori della scena metal, e a parere di chi scrive, della Musica tutta. 

Il suo testamento musicale fu quel "The Fragile Art Of Existence" a nome Control Denied, ancora oggi così difficile da inquadrare in un filone musicale ben definito; album che ridisegnava i canoni delle composizioni a firma Schuldiner che, pur conservando una struttura circolare tipica dei Death, ne dilatava paurosamente i tempi e si permetteva divagazioni strumentali più o meno inedite.

Spremuta per bene la situazione Control Denied, con riedizioni su riedizioni, stampa di materiale demo e di finti inediti, lo strisciante Eric Greif, una sorta di Saul Goodman con i capelli di Sammy Hagar, inventa un nuovo sport: lucrare sul cadavere di Chuck con la scusa della omonima fondazione benefica (sulla quale ho pochi dubbi in fatto di onestà e buone intenzioni, essendo coinvolta in prima linea anche la madre di CS), e spremere come un limone il marchio Death, proponendo qualsiasi scempio gli sia potuto passare nella testa in questi quasi quindici anni, di cui il DTA Tour è solo una delle tante bieche operazioni commerciali di uno sfruttamento che va avanti ormai, come già detto,  da anni, tra ristampe dell'intera dicografia dei Death, in boxset da 13 cd l’una con tracce live, demo, registrazioni in studio durante le prove e pupazzetti (l'ultima, per ora, dato che al peggio non c'è mai fine, aberrante invenzione di cui nessuno sentiva la mancanza), pubblicazioni live (Cosa sono i più o meno recenti due-tre live album, se non un'ulteriore prova a sostegno della nostra tesi? Se volevamo un live che si sentisse di merda c’era già "Live In LA"…), e i DTA, che inizialmente, nel 2012 dovevano durare il tempo di un tour di poche date in giro per festival estivi poi, sai com’è, ci si lascia prendere la mano, e i dollaroni non fanno schifo a nessuno.
 

La pagina su metal-archives di tale Eric Greif mi racconta che è stato manager, negli anni 80, di vari gruppi della scena death americana che conta, nonchè organizzatore di alcuni festival estremi nello stesso periodo, manager dei Death stessi dall'88 al 94, e successivamente avvocato di gente tipo Paul Masvidal (e aspettiamo di sapere come finirà la diatriba sul nome Cynic) e di gruppi tipo Obituary, Massacre e Autopsy o di label tipo la Season Of Mist. Si è infine reinventato sciacallo  specializzato in vilipendio di cadavere, al pari di Gloria Cavalera e di Sharon Osbourne. Sì, so bene che i mariti di queste ultime non sono morti ancora, ma guardate bene Ozzy, e provate a immaginare l'odore di Max e ditemi senza ridere che non è già in via di decomposizione.

Personalmente mi sono sempre rifiutato di vedere i DTA-Death To All dal vivo, sia qui a Roma pochi giorni fa, sia negli anni scorsi in un paio di occasioni festivalare, proprio perchè non riesco a concepire i Death senza Chuck. Che sia per un tributo live o, peggio, per una registrazione che, fidatevi, prima o poi arriverà.

Il sospetto che il tutto venga organizzato solo per soldi più che per una genuina voglia di ricordare il genio di Chuck è molto forte, e a sostegno di questa ipotesi vanno i continui sold out anche della data di Roma, in cui il Traffic pare che fosse pieno al livello di non poter fare un passo, nemmeno aggirandosi dalle parti dei bagni in fondo al locale.

E c’è poco da gioire del fatto che ci siano Gene Hoglan o Steve DiGiorgio. Ci si fa le pippette tutti insieme perchè è un'occasione d'oro per vederli fare scintille dal vivo INSIEME, e sono il primo che darebbe via lo stipendio per vederli in azione, ma se si trovano sullo stesso palco davanti a un bandierone con il logo dei Death, è  semplicemente per un caso fortunato che li vuole liberi da altri impegni, probabilmente meno remunerativi. Nel primo tour se non sbaglio c’erano i soliti Hoglan, Masvidal, Reinert, DiGiorgio, più altri session più o meno recenti della storia dei Death, da Shannon Hamm allo scomparso Scott Clendenin, più gente random tipo Hannes Grossman e Steffen Kummerer degli Obscura, che poi hanno dovuto dare forfait per le solite storie burocratiche coi VISA negli Stati Uniti, o Travis Ryan, o Matt Harvey, o Danny Walker, o tale Charles Elliot degli Abysmal Dawn. Tutti ottimi musicisti, per usare un eufemismo, ma che coi Death e con Chuck Shuldiner hanno avuto poco o niente a che fare.

Tutti sono intercambiabili, con i quasi intoccabili Hoglan-DiGiorgio a fare da pilastri inamovibili, almeno finchè i Testament non li richiameranno al quartier generale, e lì entreranno le riserve che già ora si staranno scaldando.

È tutta una enorme presa per il culo. Per quanto mi riguarda, molto meno rispettabile che un tributo qualsiasi dei Symbolic o degli Zero Tolerance a 5 euro in un locale da 100 persone. Tutti gruppi di fans che hanno la stessa passione dei vari Gene Hoglan, Steve Di Giorgio, Bobby Koeble (che ha pure messo da parte il jazz per un po'), e ai quali non contesto NULLA. 

La vera e unica piaga è questo maledetto Eric Greif, che è materialmente quello che stacca l'assegnone, e che ha deciso di volerne staccare ancora parecchi.

E poi, sinceramente, ma chi cazzo è sto Max Phelps?

Avrei capito di più una operazione di pura nostalgia con una sezione strumentale INTERAMENTE composta di ex membri, e con le linee vocali lasciate al pubblico. Ma mettere un tizio a caso davanti al microfono e con una chitarra in mano mi fa pensare veramente ad uno che dopo averti picchiato e lasciato per terra sanguinante torna indietro per sputarti in faccia e per insultarti la madre.

Sono lontani i tempi dei Savatage e del tributo da lacrime a Criss Oliva, con la chitarra al centro della scena e Paul O'Neil che piange a bordo palco. Ma in quel caso si parla di signori veri.

lunedì 24 novembre 2014

Doomraiser - Erasing The Remembrance (2009)

Tracklist:
1. Pachidermic Ritual (Intro)
2. Another Black Day Under the Dead Sun
3. The Raven
4. C.O.V. (Oblivion)
5. Vanitas
6. Head Of The River (Intro)
7. Rotten River:
    Part I - The River
    Part II - On the First Day Of New Dark Year for the World 01/01/08

Il mio battesimo al verbo dei Doomraiser avvenne per caso alcuni anni fa, probabilmente nel 2009, durante una serata in cui non si sapeva assolutamente cosa combinare. Dopo vari giri  approdai ad un locale che conoscevo bene, e che nonostante fosse meta prediletta dei metallari romani, non era così rinomato per i concerti che vi si svolgevano. Solitamente ci si trovavano gruppi porno-grind vegetariani o comunque formazioni molto legate all'underground e con poco o nessun interesse di uscirci. Le dieci-venti persone che quindi formavano il pubblico non erano quindi messe in difficoltà dalla colonna enorme che troneggiava al centro della minuscola sala, riuscendo nel quasi impossibile compito di bloccare la visuale a chiunque. Insomma, per non sapere cosa combinare, decidemmo di fare il biglietto, di scendere le scale e di dare un'occhiata al concerto appena iniziato. Non sapevo di star scendendo direttamente negli Inferi.

Appena aperta la porta insonorizzata sono stato investito da qualcosa di sulfureo, da un'aura di sacralità impensabile per quel locale. A scatenare questa sensazione particolare, irripetibile e difficilmente descrivibile, possono aver concorso vari fattori, dalla sala piena ad impedire qualsiasi movimento, dal livello di coinvolgimento del pubblico, già infervorato ai massimi livelli dopo pochi secondi, dall'ottima fattura dei picture disc bellamente esposti al banchetto del merchandising e dalle vecchie glorie che negli anni ho imparato a riconoscere sotto ai più svariati palchi. Visto tutto questo, e con la band che intanto vomitava riff pesantissimi, accompagnati da un cantante nascosto dietro ad una maschera di cuoio, mai avrei pensato che questi Doomraiser, gruppo che non avevo mai nemmeno sentito nominare, potessero essere Italiani e men che meno che fossero proprio di Roma.

Negli anni ho visto i Doomraiser in azione innumerevoli altre volte, ma l'intensità di quel concerto, accompagnata dal piacere di una grande scoperta, benchè i nostri continuino ad essere una garanzia sia dal punto di vista live, sia per quanto riguarda la qualità altissima delle centellinate uscite discografiche, non è più stata raggiunta.

Era appena stato dato alle stampe questo "Erasing The Remembrance", secondo lavoro in studio,  e già la band aveva alle spalle un grandissimo debutto "Lords of Mercy", numerosissimi split con realtà anche importanti del genere, ed una lunga serie di concerti in giro per l'Europa, soprattutto in Inghilterra, con presenze quasi fisse nei festival doom-stoner et similia.

Pochissimi mesi dopo uno dei due chitarristi fu sostituito da Willer Donadoni, già in forza nei Blackland insieme a due membri dei Doomraiser, ed il gruppo virò da sonorità molto orientate verso il riffone di chitarra ad un approccio maggiormente anni '70, con gran spazio all'improvvisazione e alla psichedelia. Con lui arrivò un importante utilizzo del Moog da parte del frontman Cynar, sia in studio che dal vivo, e l'uso di una effettistica molto più elaborata che andava a contrapporsi ai riff distortissimi da manuale dell'altro chitarrista Drugo, a mio avviso la vera icona del gruppo, insieme all'inconfondibile bassista BJ.

La proposta musicale dei Doomraiser si può quindi distinguere in due fasi importanti di egual valore: una prima fase molto più riff-oriented e più legata al doom tradizionale, fortemente debitore della lezione di Pentagram, Saint Vitus e Black Sabbath ed in misura molto minore, dei Candlemass; ed una fase sempre basata su una chiara matrice doom,  ma con aspetti più sperimentali e psichedelici, a partire dal terzo album "Mountains Of Madness".

Tralasciando una descrizione dei vari pezzi che compongono l'album, poco stimolante sia nella lettura sia, da parte mia, nel dover cercare aggettivi diversi per ogni traccia, lascio al lettore-ascoltatore il compito di scoprire gemme come "The Raven", "Rotten River" o "Vanitas", dove solidi riff di chitarra, il basso martellante di BJ ed il drumming scarno ed ossessivo di Pinna (che considero il batterista perfetto per questa formazione. Non riuscirei ad immaginarmi con nessun altro dietro alle pelli, nemmeno se si trattasse di Bill Ward) vanno a costruire un tappeto sonoro solido e pesante come una montagna, su cui si stagliano gli echi lamentosi ed accorati del già citato Cynar, che assumono quasi l'aspetto di un complicato rituale nei momenti più intensi.

Oggi, nel 2014, sono cambiati entrambi gli axemen, avendo reclutato Marco Montagna e Giulio Marini, già affiatati nei Nerodia, gruppo improntato maggiormente verso un death-black dal gusto antico. Vedremo quindi a Gennaio del 2015, quando verrà presentato, su quali aspetti verterà maggiormente il prossimo lavoro "Reverse (Passaggio Inverso)". Avendo comunque la certezza di non rimanere delusi per nessuna ragione al mondo.

Ascoltateli, e andate a vederli appena ne avrete la possibilità. Sicuramente non ve ne pentirete.